Social Collaboration: ripensare i modelli organizzativi con le persone al centro dell’impresa
Qual è la portata del fenomeno?
Non si tratta, però, solamente di un nuovo modo di lavorare che può far funzionare meglio i rapporti tra dipendenti e clienti esterni. La social collaboration – e più in generale l’evoluzione verso una social organization – è un percorso di trasformazione che riguarda l’intera azienda e che consente di ottenere dei benefici enormi in termini di efficacia sul mercato. Ma perché occuparcene? Le sfide che oggi il mercato impone alle organizzazioni sono molteplici e molto difficili da ignorare. In primo luogo non siamo in grado di gestire correttamente la nostra forza lavoro interna. Secondo i dati di Gallup, infatti, buona parte della forza lavoro mondiale è attivamente dis-ingaggiata, cioè rema contro i principi e i valori stessi dell’organizzazione: è solo il 13% dei dipendenti a essere attivamente coinvolto e a partecipare alla costruzione di valore per l’impresa. Le persone non sono l’unico problema dell’organizzazione: il 50% del lavoro collaborativo, secondo McKinsey, viene sprecato e il 44% dei dipendenti non riesce a trovare i documenti che cerca all’interno della intranet aziendale, secondo Forrester. Inoltre, secondo IDC ¼ della settimana lavorativa è speso per cercare e trasformare conoscenza (si tratta di circa 5,6 milioni di dollari all’anno ogni 1000 dipendenti). Siamo tutti knowledge worker, che ci piaccia o meno, la conoscenza rappresenta oggi un driver fondamentale per il business e il fatto che le aziende facciano fatica a gestirla è estremamente rappresentativo dell’urgenza con la quale è necessario analizzare il fenomeno.
D’altro canto le organizzazioni e i dipartimenti HR sono da sempre state abituati a ragionare con catene di comando e di controllo, sacrificando l’agilità e la trasparenza a favore di efficienza e replicabilità. Il mondo di oggi impone, però, sfide completamente differenti: gestiamo le eccezioni ai processi molto più che i processi stessi e siamo spesso impreparati e in ritardo rispetto a organizzazioni e startup più snelle, a geometria variabile e in grado di interpretare meglio il ruolo e le richieste dei consumatori e dei clienti. Anche l’innovazione è un tasto dolente, con aziende ancora arroccate su un modello limitato che poco coinvolge dipendenti e clienti esterni. Sempre secondo McKinsey il potenziale di questo tipo di approccio potrebbe sbloccare un valore compreso tra i 900 e 1300 miliardi di dollari in 4 differenti settori, 2/3 di questo miglioramento è riscontrabile nella comunicazione e nella collaborazione interna. E l’Italia? La social collaboration survey, nata in collaborazione con Emanuele Quintarelli e condotta un paio di anni fa, mostra come il 75% degli executive consideri gli approcci collaborativi come assolutamente strategici per il futuro delle aziende.
Quali sono le aziende che hanno intrapreso questo cambiamento?
Ci sono aziende che hanno già intrapreso questo tipo di percorso e stanno cominciando a riscontrare i primi significativi risultati, non solo sulla dimensione di engagement e di partecipazione ma, fattivamente, su una dimensione di business. Qualche esempio? Valve, la famosa azienda che produce videogame, da sempre adotta un approccio agile, in cui i dipendenti stessi gestiscono l’azienda, sono liberi di sbagliare e si valutano tra di loro, il management non esiste e la leadership è basata sulla competenza e cambia a seconda dei singoli progetti. Giff Gaff, operatore telefonico britannico, non ha un customer service e si orienta attorno alla sua community clienti riuscendo a rispondere al 100% delle richieste nell’arco di massimo 3 minuti e garantendo un NPS vicino a quelli di Google e Apple. Anche Best Buy rappresenta un esempio eccezionale: attraverso strumenti di collaboration interna e l’estensione del customer care a tutti i dipendenti interni (oltre 2600), più che a un singolo ufficio garantisce un tempo di risposta medio entro i 12 minuti. Quello di cui stiamo parlando è un nuovo modo di intendere la capacità e la modalità di fare impresa, un modello nuovo di lavoro che passa da una gestione radicalmente differente delle risorse umane. L’obiettivo, è bene sottolinearlo ancora una volta, è quello di realizzare organizzazioni più a misura d’uomo e più capaci di gestire il cambiamento e le sfide che sono imposte dal mercato.
Come si progetta una social collaboration?
Le aziende che ce l’hanno fatta rappresentano un punto fermo e un faro nelle difficoltà incontrate dai più. Le lezioni che ci insegnano sono parecchie e ci permettono di stilare un elenco di best practice che possono aiutare le organizzazioni a intraprendere questo percorso di cambiamento senza perdersi per strada:
- Progettare con le persone al centro. Le persone, per anni messe da parte da un management e dall’HR di stampo scientifico e taylorista rappresentano l’ingrediente fondamentale all’interno delle relazioni e del percorso di cambiamento dell’impresa.
- Educare al cambiamento. Progetti come quelli menzionati sono progetti che insistono in primis su un modello di cambiamento organizzativo e strutturale dell’impresa.
- Garantire la sponsorship del top management. Cambiare un’impresa senza coinvolgere la sua testa è un’azione tanto ardua quanto stupida. Il top management e i livelli più alti dell’organizzazione devono essere coinvolti e devono sostanziare il processo di cambiamento attraverso azioni molto precise e puntuali.
- Prevedere gli opportuni incentivi e il corretto riconoscimento. Cambiare a parole non è sufficiente. Occorre un duro lavoro di motivazione e di riconoscimento. Le politiche e la funzione HR in questo caso sono determinanti per gestire in modo corretto la motivazione e il tipo di contributo che gli utenti sono in grado di fornire. Le organizzazioni più mature in tal senso provvedono a fornire incentivi di partecipazione sia di natura informale sia di natura formale ed economica. La collaborazione, in questo senso, è riconosciuta come uno dei valori centrali dell’impresa.
- Utilizzare modalità di co-design per favorire l’adozione. Non ci si stanca mai di ripeterlo: è necessario progettare con gli utenti al centro, i fruitori delle tecnologie digitali devono partecipare fattivamente alla loro realizzazione in modo da beneficiare al massimo di idee e suggestioni che provengono dalle funzioni più disparate.
- Misurare non solo l’engagement, ma anche e soprattutto il business. Moltissime delle aziende con le quali mi confronto quotidianamente non hanno nessun tipo di strumento per misurare l’andamento di iniziative di social collaboration e le poche che misurano si limitano a tracciare indicatori di partecipazione e di coinvolgimento che non sono minimamente connessi al business.
- Coinvolgere l’intera azienda. Non parliamo di un progetto HR, di comunicazione interna, di IT. Parliamo di un progetto che coinvolge l’intera organizzazione all’interno di una trasformazione radicale e strutturata (escludere un dipartimento organizzativo significa compromettere la riuscita del progetto).
- Adottare una strategia ibrida. Le aziende che investono in strategia, cambiamento, tecnologia e formazione sono quelle destinate al successo dell’iniziativa.
- Rispondere alla domanda “Ma io cosa ci guadagno?”. Le persone devono comprendere il vantaggio di lavorare con nuovi strumenti e nuove modalità, progettarle insieme a loro, come abbiamo visto, è una delle attività fondamentali per evitare che il progetto non funzioni. Partire dai bisogni delle persone, progettare con loro e far capire il valore di quello che stiamo facendo è fondamentale.
Che cos’è allora una social organization? Torniamo al punto di partenza, si tratta di un modello nuovo di fare impresa capace di (ri)mettere al centro le persone e di massimizzare i risultati che è possibile ottenere. In sintesi si tratta di massimizzare la catena del valore per tutti gli attori coinvolti (interni ed esterni all’azienda) attraverso un coinvolgimento più esteso di risorse e competenze che passano dai canali digitali e collaborativi.