

C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui abbiamo imparato a vivere il tempo libero. Le ferie — quel momento teoricamente dedicato al riposo, alla rigenerazione, alla riconnessione con sé stessi — si sono trasformate in un terreno minato di notifiche, ansie e sensi di colpa. Il fenomeno ha un nome, vacation guilt, e non è solo una sensazione passeggera. È un sintomo preciso di una cultura del lavoro che ci vuole sempre reperibili, sempre performanti, anche sotto l’ombrellone.
Sembra una contraddizione, ma non lo è: mentre social e brochure aziendali ci raccontano l’importanza del “work-life balance”, nella pratica è ancora molto diffusa la percezione che prendersi del tempo sia quasi un privilegio da giustificare. E chi lo fa, spesso, non riesce a goderselo davvero. Il risultato? Vacanze interrotte, stress che non si placa, e — in molti casi — l’anticamera del burnout.
Il lavoro che non molla (e che non molliamo)
Secondo Business Insider, quasi la metà dei lavoratori si sente in colpa se non controlla le email durante le ferie. E la maggioranza continua a farlo, non perché ne abbia davvero bisogno, ma perché teme di sembrare meno coinvolta, meno affidabile. Come se il valore professionale passasse per la capacità di rimanere “sul pezzo” anche in costume da bagno.
Ma il problema è più ampio. Non si tratta solo di cattive abitudini, ma di una vera e propria risposta psicologica a un ambiente in cui la produttività è la misura dominante del nostro valore. In altre parole: anche se siamo in vacanza, continuiamo a comportarci come se fossimo in ufficio, con l’unica differenza che lo facciamo da una terrazza sul mare.
E se pensi che il problema riguardi solo i “dipendenti modello”, preparati a ricrederti: uno studio pubblicato da Perkbox ha rivelato che oltre il 90% dei manager di alto livello (la cosiddetta C-suite) fatica a staccare davvero durante le ferie. Il paradosso è evidente: chi dovrebbe dare l’esempio, spesso è il primo a rimanere incollato allo smartphone.
Quando il corpo dice basta
Il vacation guilt è un terreno fertile per il burnout. Lo conferma anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che descrive il burnout come una sindrome legata a stress cronico non gestito sul posto di lavoro. E se non ci prendiamo tempo per recuperare — tempo vero, di qualità — quel carico mentale e fisico finisce per esplodere.
Dormiamo male. Abbiamo mal di testa ricorrenti. Ci sentiamo stanchi anche dopo otto ore di sonno. La mente è offuscata, la concentrazione è ballerina, e il nervosismo diventa la norma. Ma la soluzione non è solo “prendersi una vacanza”: serve una vacanza che rigeneri davvero. E quella, oggi, è merce rara.
Un’ampia meta-analisi riportata da The Times ha evidenziato che i benefici delle ferie — in termini di benessere psicologico e fisico — si mantengono per settimane dopo il rientro, ma solo se c’è stato un reale distacco mentale dal lavoro. Se invece restiamo in modalità “controllo mail”, tutto si riduce a una parentesi inefficace.
La cultura del “non sei mai davvero offline”
Dietro tutto questo c’è una cultura del lavoro che celebra l’iperconnessione e l’iperdisponibilità. Una cultura dove il silenzio digitale viene interpretato come disinteresse, e dove il confine tra vita lavorativa e personale è sempre più labile.
Secondo la definizione di leaveism, è sempre più comune che le persone lavorino anche durante ferie o permessi. Non perché siano obbligate, ma perché si sentono in dovere. È il riflesso di un sistema che premia chi non si ferma mai, e penalizza — anche solo implicitamente — chi sceglie di rallentare.
In questo contesto, il senso di colpa è quasi automatico. E le nuove generazioni non sono immuni. Un’indagine riportata dal New York Post mostra che oltre il 50% dei millennials si sente in colpa quando si prende una vacanza, temendo di perdere occasioni o di essere giudicato poco ambizioso.
Come si spezza il circolo vizioso
Le soluzioni, per fortuna, esistono. E cominciano da piccoli gesti. Impostare un’autorisposta che comunichi chiaramente che non si è reperibili. Disattivare le notifiche. Delegare in modo efficace prima di partire. Ma soprattutto: normalizzare il fatto che staccare è sano, necessario e non implica né fragilità né disinteresse.
Le aziende giocano un ruolo fondamentale. Quando l’ambiente di lavoro valorizza il tempo libero, anche i dipendenti si sentono più legittimati a goderne. Secondo AgCareers, il 92% dei lavoratori che operano in aziende con una cultura positiva verso le ferie si dichiara soddisfatto del proprio equilibrio vita-lavoro. Un dato che scende drasticamente in ambienti più rigidi o ipercompetitivi.
Esistono anche approcci più strutturati, come le reboot week raccontate dal medico David Longnecker. Si tratta di settimane in cui tutta l’azienda si ferma, permettendo un disallineamento collettivo. Nessuno lavora, nessuno controlla: e così il senso di colpa si dissolve, perché non c’è più un “altro da fare”.
Restituire valore al tempo
Alla fine, la domanda più semplice è anche la più importante: perché ci sentiamo in colpa per prenderci cura di noi stessi?
Forse perché abbiamo interiorizzato l’idea che il valore passi solo dal fare. Forse perché confondiamo l’impegno con la reperibilità, la responsabilità con la rinuncia. Ma finché penseremo che “essere bravi” significhi “non fermarsi mai”, continueremo a vivere vacanze spezzate, pause ansiose, giorni liberi pieni di lavoro nascosto.
Rivendicare il diritto alla disconnessione non è un atto egoistico. È una scelta di consapevolezza. Una dichiarazione di equilibrio. Ed è l’unico modo per evitare che la prossima vacanza sia solo un altro capitolo di stress travestito da libertà.


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