Intervista a Luigi Mengato: la formazione aziedale come risorsa chiave


1. Com’è nato e come si è evoluto il tuo percorso professionale?
A scuola non ero certo uno studente modello: preferivo organizzare le feste del liceo
piuttosto che dedicarmi alle materie scolastiche. Tutto è cambiato in quinta
superiore, quando è arrivato un professore di matematica che – senza che allora me
ne rendessi conto – utilizzava metodologie andragogiche più che pedagogiche. La
matematica, che fino a poco prima detestavo, è diventata la materia più affascinante
del mondo e i miei voti sono decollati. Tanto che, arrivato all’università, ho scelto di
studiare Statistica Informatica.
Quando poi ho iniziato a lavorare come controller vendite in azienda, mi sono
scontrato con una difficoltà imprevista: non erano i numeri o i modelli statistici a
mettermi in crisi, ma il lavorare con le persone. All’inizio ho pensato che forse a
scuola mi fosse mancata “qualche materia” — dopotutto non ero stato uno studente
modello. In realtà quella materia esisteva, ma non si insegnava a scuola: le soft skills.
Ho iniziato a interessarmene sempre di più, fino a scoprire che potevano diventare
non solo una passione, ma anche una professione.
E infine, quando sono diventato formatore, ho capito un’ulteriore cosa: oltre alle
materie, esistono anche le metodologie. Una cosa è insegnare, un’altra è facilitare
l’apprendimento, proprio come aveva fatto con me quel professore di matematica in
quinta liceo. E lì si è chiuso il cerchio: la mia esperienza personale è diventata la mia
missione professionale.
2. In base alla tua esperienza, qual è oggi il ruolo della formazione in
azienda? Come dovrebbe evolvere?
Conosci Fantozzi? Nei suoi film non si prende mai in giro la formazione,
semplicemente perché in quegli anni non si faceva formazione in azienda. Fantozzi è
entrato a lavorare come ragioniere ed è andato in pensione come ragioniere, senza
mai aggiornarsi. Oggi invece finisci la scuola e, di fatto, puoi ricominciare a studiare:
l’apprendimento è continuo e costante. La formazione in azienda dovrebbe
rispecchiare questa logica, non come evento isolato ma come processo continuo,
basato su metodologie andragogiche più che pedagogiche. Servono approcci attivi,
partecipati, che trasformino la formazione in vero apprendimento.
Per me la differenza è sostanziale: la formazione è un’attività promossa da uno o più
agenti con l’obiettivo di produrre cambiamenti nelle conoscenze, abilità e
atteggiamenti. Il focus è sul formatore come agente di cambiamento, che progetta
stimoli e attività per favorire il miglioramento. L’apprendimento, invece, mette al
centro la persona, il suo processo di trasformazione e ciò che interiorizza e applica
nel proprio contesto.
feedback e sperimentazione continua. Solo così possiamo passare dalla formazione
come trasmissione di contenuti all’apprendimento come cambiamento reale e
duraturo.
erogare cataloghi di formazione, serve diventare facilitatori di apprendimento
diffuso. In un mondo in cui il cambiamento è costante, la vera sfida è portare la
formazione fuori dalle aule e dentro la quotidianità del lavoro.
Credo che le HR possano agire su tre livelli. Il primo è l’esempio: se chi lavora in HR
per primo coltiva la propria crescita e condivide ciò che impara, trasmette un
messaggio di coerenza e credibilità. Il secondo è la progettazione di esperienze:
non solo contenuti tecnici, ma percorsi che sviluppino soft skills, collaborazione e
problem solving, usando metodologie attive e partecipate. Il terzo è la creazione
di ecosistemi di apprendimento, dove strumenti digitali, community interne e
pratiche di condivisione diventano parte del lavoro quotidiano.
La cultura della formazione continua non si costruisce a colpi di corsi obbligatori, ma
creando contesti in cui imparare è naturale, utile e riconosciuto. Quando le persone
percepiscono che la formazione non è un “extra” ma un supporto reale per fare
meglio il proprio lavoro, allora lo sviluppo del talento diventa parte integrante della
vita aziendale.
4. Se dovessi descrivere il futuro delle HR con tre parole, quali sceglieresti - e perché proprio queste?
processi statici e piani triennali immutabili. Le HR dovranno adottare un
mindset flessibile, capace di sperimentare, raccogliere feedback e adattarsi in
corsa. Non parlo solo di metodologie, ma di una vera cultura dell’adattabilità.
Umano, perché nel pieno dell’era dell’automazione e dell’intelligenza
artificiale, il vero vantaggio competitivo resterà la capacità di creare relazioni,
generare fiducia e motivare le persone. Le HR non dovranno solo gestire
processi, ma alimentare connessioni autentiche.
Strategico, perché le Risorse Umane non possono più essere viste come
funzione di supporto. Devono essere al tavolo delle decisioni, contribuendo a
orientare la direzione dell’azienda. Lo sviluppo delle competenze e dei talenti
va connesso direttamente agli obiettivi di business, diventando parte
integrante della crescita organizzativa.
strategia.


Non sprecare il tuo talento. Valorizzalo con il Master più adatto alle tue esigenze.
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