3 segnali per capire se è il momento di cambiare lavoro
“Pensaci bene! Non è così semplice trovare un nuovo lavoro al giorno d’oggi!”
“Perché insisti nel voler seguire progetti e attività diverse da quelli che ti proponiamo? Non pensi che dovresti focalizzarti di più “sul tuo”?”
“La routine e le attività ripetitive sono un aspetto assolutamente normale in un lavoro! Non ti scoraggiare, vedrai... col tempo ci farai l’abitudine”.
Se hai sentito queste affermazioni da parte di familiari o referenti lavorativi è perché probabilmente, sul piatto, stai portando la scottante questione se cambiare lavoro o meno.
Provare dei momenti di fatica e tensione o degli alti e bassi nel proprio lavoro è un fenomeno assolutamente normale e da mettere in conto: fare il lavoro dei propri sogni non significa sognare. Anzi, il lavoro che ci realizza spesso si accompagna a tanto impegno e sudore e a stati d’animo caratterizzati, a volte, da una carica al fulmicotone.
Considerata l’incertezza che caratterizza i contesti lavorativi in questo particolare momento storico, i suggerimenti visti sopra potrebbero quindi essere davvero ragionevoli e motivati dall’idea benevola di dissuaderti dal compiere colpi di testa o dall’agire d’impulso. E non andrebbero pertanto presi con leggerezza.
Come capire allora se tutto ciò è frutto di un temporaneo cortocircuito oppure se è corroborato da un’effettiva necessità di crescita evolutiva?
Tre sono i segnali che ci sembrano possano indicare che è giunto il momento di prendere in carico questa spinta a metterti in gioco e di affrontarla in modo più consapevole.
Vediamoli insieme.
#1 segnale: la tua creatività è in modalità “mute”
Partiamo da un caso reale, quello di Camilla. Sulla carta, il lavoro e la posizione di Camilla sono invidiabili: azienda player in ambito digitale, contesto vivace e attento ai dipendenti, buon riconoscimento economico e una posizione solida nel settore che da sempre le interessa.
Praticamente il lavoro ideale per lei!
Sa di essere in qualche modo “fortunata”, tuttavia, da qualche tempo, avverte che non c’è più l’effervescenza dei primi tempi e si sente quasi un automa: svolge le molte attività sempre in modo professionale ma in modo quasi asettico, emozionalmente distaccato, come se dentro di lei si fosse azionato il pilota automatico. E il suo lavoro avesse perso di senso.
La cosa che più la sconcerta è che il guizzo creativo che la caratterizzava fino a poco tempo fa, quella sorta di “fermento sinaptico” foriero d’idee e intuizioni fulminee, si è improvvisamente zittito. Come se si fosse disconnesso e si trovasse improvvisamente in modalità “mute”.
In questo TEDx Shonda Rhimes - la donna dietro il successo di Grey’s Anatomy in grado di gestire fino a quattro serie per volta - afferma come ci sia una sorta di segnale che le dice che il lavoro sta andando bene, uno “shift” che lei definisce “the hum”, il ronzio. E afferma: “Ciò che rende così bello il mio lavoro è che il mio cervello comincia a ronzare e questo ronzio cresce, cresce, cresce. Non è lo scrivere in sé che mi rende felice, ma è questa cosa ... this buzz, this rush... This Hum!”. Nel suo speech ispirazionale la scrittrice racconta di come, arrivata nel pieno fulgore della sua carriera, “the hum” l’abbia improvvisamente abbandonata, e di come questo mutismo interiore si sia trasformato quasi in un grido che l’ha spinta a guardarsi dentro più attentamente e a fermarsi per riflettere. Dando, così, una nuova impronta alla sua vita professionale e personale.
Avverti anche tu che il tuo “hum” si è in qualche modo disattivato?
Certo, potrebbe trattarsi di un segnale di stress o di affaticamento mentale temporaneo, risolvibile attraverso una migliore organizzazione dell’agenda e un più efficace bilanciamento tra vita lavorativa e vita extra-lavorativa. Dall’altra, questo segnale potrebbe significare che questo lavoro ti ha dato tutto quello che poteva darti, e che sei pronta a proporti sul mercato e a provare nuove sfide lavorative.
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#2 segnale: l’irrequietezza diffusa
Vediamo insieme la storia di Mattia. Da sempre appassionato di materie STEM e di ambienti ad alto tasso di digitalizzazione, percepisce nella sua azienda un atteggiamento che lui definisce “a impronta tradizionalista”. Ne apprezza ancora lo stile familiare e il purpose virtuoso, che si tramanda da diverse generazioni, ma quando ripensa agli sviluppi di carriera promessi in sede di assunzione prova una sottile frustrazione e un senso di delusione.
Le persone con cui si è confrontato, lo hanno caldamente invitato alla cautela: perché arrischiarsi a rinunciare a un buon lavoro per buttarsi in qualcosa d’ignoto? E in effetti, Mattia non può negare i vantaggi di lavorare in una realtà solida che propone dei prodotti e dei servizi riconosciuti come validi sul mercato.
Ma con il passare del tempo Mattia è sempre più irrequieto, sente di non imparare più nulla e il lavoro gli pesa sempre di più. Di questo, se ne è accorto anche il suo collega d’ufficio che, di recente, gli ha fatto notare come guardi di continuo l’orologio e come reagisca in modo irritato a quelle stesse situazioni che in passato approcciava con entusiasmo ed energia.
Gli ha così suggerito di dare uno sguardo alle posizioni aperte all’interno dell’azienda. Già... perché no? Mattia è attratto dall’idea ma, allo stesso tempo, riconosce di non possedere tutte le skill digitali necessarie per affrontare un upgrade di carriera.
Carol Dweck - un’autorità mondiale nel campo degli studi sulla personalità e della psicologia dello sviluppo e docente presso la Standford University - nel suo bellissimo libro “Mindset”, evidenzia l’importanza di passare da una forma mentis statica a una forma mentis dinamica e spiega come farlo. Secondo quest’autrice, il mindset di tipo statico porta a credere in modo deterministico che le proprie qualità siano scolpite nella pietra e a misurarsi costantemente solo con queste. Dall’altra, il mindset di tipo dinamico si fonda sulla convinzione che il vero potenziale di una persona sia sconosciuto e che sia impossibile prevedere quali potranno essere i risultati ottenibili con anni di passione, impegno e formazione.
E tu, in quale dei due mindset ti riconosci? È forse giunto il momento di fare un upskilling o un reskilling del tuo profilo? Dai un’occhiata ai master di Talent Garden: ce ne sono diversi in partenza a breve!
#3 segnale: crearsi “l’isola felice”
Nel film di W. Allen “Midnight in Paris”, Gilbert (Owen Wilson) si trova schiacciato in dinamiche familiari che lo dissuadono dal coltivare la sua forte passione per la scrittura, con l’obiettivo di spingerlo a occuparsi dell’attività di famiglia, che però lui non sente affine. Durante un viaggio di vacanza, complice la magica atmosfera di Parigi a mezzanotte, l’aspirante romanziere si trova trasportato come d’incanto nella mitica Parigi anni ’20 e coinvolto in incredibili e affabulanti conversazioni con i grandi artisti della "Generazione perduta" come lo scrittore F. S. Fitzgerald e la moglie Zelda, il compositore Cole Porter, la soubrette Joséphine Baker e lo scrittore Ernest Hemingway. Da queste immersioni oniriche ne esce completamente trasformato e col desiderio di affrontare il presente sulla scia di una rinnovata consapevolezza.
Anche Rebecca, nella sua azienda, sta vivendo un’esperienza molto simile: negli ultimi tempi si alza sempre più tardi, arrivando a preparare le attività in modo frettoloso, come se fossero dei “compitini”, mentre sempre più corposi si fanno i momenti “off” che si ritaglia per navigare su internet, per “prendere ossigeno” e spaziare così tra i suoi interessi.
La sua “isola felice”. Così chiama questi attimi di magia, in cui si sente realizzata e profondamente coinvolta.
Con i familiari e gli amici non parla mai del suo lavoro e lo scoramento che la assale la domenica sera sta diventando un momento sempre più pregnante. Dall’altra, i rapporti coi colleghi e con i suoi referenti si stanno facendo sempre più distanti e connotati da comunicazioni stereotipate e scarsamente empatiche.
Col tempo, i week-end sono diventati il naturale prolungamento di queste sue evasioni, una sorta di “second life” nella quale Rebecca si rifugia con entusiasmo e dove sente di trovare persone che si nutrono delle sue stesse passioni, aspirazioni e scambi di conoscenze.
Nel suo best-seller “La trappola della felicità” Russ Harris – figura di rilievo nel panorama dell’Acceptance and Commitment Therapy - annovera il tentativo di eliminare, evitare o sfuggire le emozioni e i contesti spiacevoli all’interno delle “strategie di fuga”. L’illusione – dice Harris - è quella di controllare direttamente i propri stati d’animo estraniandosi dal reale. E aggiunge: queste strategie di controllo, alla lunga, possono diventare sfibranti a livello fisico e psichico e ostacolare il processo di crescita in ambito personale e professionale.
In “Design Your Life”, B. Burnett e D. Evans – docenti presso lo Stanford Design Program e fondatori del Life Design Lab – affermano: “Una vita ben progettata è una vita che ha senso. Ed è una vita in cui chi sei, quello in cui credi e quello che fai si allineano”.
Siamo in conclusione: ti sei riconosciuto in uno di questi tre scenari?
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