Come creare un’identità visiva inclusiva e rappresentativa


Negli ultimi anni il concetto di identità visiva è cambiato profondamente. Non basta più costruire un logo accattivante o scegliere una palette di colori di tendenza: i brand sono chiamati a riflettere i valori della società in cui vivono e a dialogare con pubblici sempre più diversi. Inclusività e rappresentazione non sono più optional, ma elementi centrali nella costruzione di una brand identity che sappia resistere nel tempo e generare fiducia.
Secondo diverse ricerche internazionali, i consumatori più giovani scelgono con maggiore probabilità brand che dimostrano attenzione alla diversità e all’inclusione nei loro messaggi e nelle loro scelte visive. Questo significa che un’identità inclusiva non è solo un gesto etico, ma anche una strategia di business vincente.
Identità visiva e inclusività: cosa significa davvero
Parlare di inclusività nella visual identity non vuol dire semplicemente inserire immagini di persone con background diversi in una campagna. Significa, piuttosto, costruire un linguaggio visivo che non escluda nessuno, che sappia accogliere differenti culture, generi, età, abilità e stili di vita.
Un brand inclusivo comunica attraverso segni, colori, font, illustrazioni e fotografie che parlano a più pubblici, evitando stereotipi e scelte che potrebbero risultare discriminatorie. Pensiamo a come un carattere tipografico troppo piccolo esclude chi ha difficoltà visive, o come un’immagine che rappresenta sempre e solo un certo tipo di famiglia non rifletta la realtà di tante persone. L’inclusività è attenzione al dettaglio, e si traduce in un design che permette a tutti di sentirsi riconosciuti.
La scelta dei colori e delle tipografie
Il colore ha un potere emotivo enorme e può rafforzare o limitare la percezione di un brand. Per creare un’identità visiva inclusiva è importante considerare la leggibilità e l’accessibilità, ad esempio garantendo contrasti sufficienti per chi ha daltonismo o difficoltà visive.
Lo stesso vale per la tipografia: un buon brand system deve includere font leggibili in più contesti e lingue, senza sacrificare la coerenza estetica. Le scelte tipografiche e cromatiche, inoltre, possono trasmettere inclusione a livello culturale. Ad esempio, evitare palette troppo legate a stereotipi di genere (rosa = femminile, blu = maschile) significa aprirsi a una comunicazione più fluida e contemporanea.
Immagini e rappresentazione: oltre gli stereotipi
Uno degli errori più comuni nei brand è utilizzare immagini “stock” che mostrano sempre lo stesso modello di persona: giovane, normodotato, appartenente a una cultura dominante. Questo crea una narrazione povera, poco realistica e soprattutto non rappresentativa.
Le aziende che hanno saputo distinguersi negli ultimi anni hanno invece investito in campagne fotografiche inclusive, raccontando corpi diversi, età diverse e stili di vita autentici. Un caso emblematico è la campagna di Dove “Real Beauty”, che ha rivoluzionato il mondo della comunicazione beauty scegliendo di rappresentare donne di età, fisicità ed etnie differenti. Questo ha contribuito non solo a rafforzare il posizionamento del brand, ma anche a costruire un legame emotivo fortissimo con i consumatori.
Accessibilità digitale come parte dell’identità
Oggi gran parte della relazione tra brand e persone avviene online. Un’identità visiva inclusiva deve quindi integrarsi con le regole dell’accessibilità digitale: testi leggibili da screen reader, immagini accompagnate da descrizioni, navigazione chiara per chi ha disabilità motorie o cognitive.
L’accessibilità non è solo un dovere etico, ma anche un’opportunità di mercato: milioni di persone nel mondo hanno bisogni specifici che, se non soddisfatti, riducono l’impatto e la reach di un brand. Un’identità visiva accessibile amplia dunque non solo l’inclusione, ma anche il potenziale di crescita.
Evitare il “diversity washing”
Un punto cruciale da tenere a mente è la coerenza. Non basta aggiungere simboli o immagini inclusive alla propria identità visiva se non c’è una reale cultura aziendale a sostegno. Il rischio è quello che molte analisi definiscono “diversity washing”: un uso superficiale dei temi inclusivi, percepito come opportunismo dai consumatori.
Per questo motivo, la progettazione di un’identità visiva inclusiva deve essere frutto di un processo che coinvolge anche HR, comunicazione e leadership aziendale. L’obiettivo è costruire una coerenza tra ciò che il brand promette visivamente e ciò che realmente fa.
Il ruolo del visual designer
Il visual designer oggi ha una responsabilità in più rispetto al passato: deve saper leggere i cambiamenti sociali e tradurli in scelte estetiche e progettuali che riflettano valori autentici. Non si tratta di “aggiungere” diversità, ma di progettare pensando fin dall’inizio a un pubblico ampio, variegato e complesso.
Il designer deve porsi domande continue: questa scelta cromatica è leggibile per tutti? Questa immagine è rappresentativa? Questo layout facilita la navigazione a persone con bisogni diversi? In questo senso, il visual design diventa uno strumento non solo creativo, ma anche etico e trasformativo.
Una competenza chiave per chi lavora nel branding
Costruire un’identità visiva inclusiva e rappresentativa non è un esercizio stilistico, ma una competenza sempre più richiesta dal mercato. Le aziende cercano professionisti in grado di progettare brand system che sappiano dialogare con pubblici globali, multiculturali e con esigenze diverse.
Chi oggi padroneggia questi strumenti si distingue e si rende più competitivo in un settore che evolve velocemente. Le aziende inclusive registrano performance migliori e maggiore fidelizzazione dei clienti. Questo rende evidente come il design inclusivo non sia più un “nice to have”, ma un vero fattore competitivo.
Ed è proprio su queste competenze che si concentra il Master in Branding & Visual Design Part Time di Talent Garden: un percorso pensato per professionisti e creativi che vogliono fare il salto di qualità, imparando a progettare identità visive che uniscano estetica, strategia e inclusione.


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